giovedì 21 ottobre 2010

I TRENI DI FERNANDO




Davanti ai convogli che sfilano lenti, Fernando, con la sua ingenuità fanciulla, si chiede “Come fa la gente. ...Come fanno quelli che non lo conoscono. Chi non è obbligato a dirgli cosa fare o non fare, cosa è giusto e cosa è sbagliato”
“Insomma: cosa fa la gente quando, come lui, ama?
Perché lui ama, ma non sa come si fa ad amare.
Guarda a terra, sorride tra sé, mentre un locale sfila lentissimo fino a fermarsi. Rialza la testa… e davanti alla porta, due ragazzi si baciano appassionatamente.”
Così, ai treni, Fernando scopre l’amore. E cosa importa se agli occhi del mondo lui è solo un povero ritardato e Teresa un trans? Il suo è un amore potente. È un amore che cambia, lui stesso e l’accumulo di abitudini e condizionamenti che lo imprigionano da una vita. Ma i cambiamenti spaventano e rompono fragili equilibri.


mercoledì 20 ottobre 2010

NON PARLATE DI POLITICA, NON CHIAMATELA DEMOCRAZIA!


Non sopporto affermazioni come “la politica fa schifo”!

Cos’è che fa scifo?
- Il comitato affaristico-mafioso che dissangua il Paese?
- Il chiocciare isterico dentro e fuori dai Palazzi del Potere?
- Assistere allo stupro della civiltà e della dignità di una Nazione?

Bene, ma tutto questo non è Politica, anche se chi pratica queste pratiche si dice “Politico”, “Eletto dal Popolo”. Non lo è anche se questi ruba, strilla e violenta in nome del Popolo Sovrano.

Perciò, per carità, non parlate di Politica e non chiamatela Democrazia!

Dai tempi di Tangentopoli il potere ha fatto tantissima strada. Gli indagati, allora, si uccidevano, si convertivano (come Cusani), provavano a discolparsi o a negare, e la gente si esaltava, applaudiva per un avviso di garanzia recapitato al potente di turno. Oggi, quando un uomo di potere e di affari (binomio INSCINDIBILE) è scoperto con le mani nella marmellata, in qualsiasi marmellata (sesso, droga o rock&roll), si limita a fare la faccia innocente e a ricordare: “Così fan tutti”.

Questa non è la Politica e non ha nulla a che fare con la Democrazia.

E’ tutto davanti agli occhi di tutti, non c’è nulla da scoprire, l’unica fatica da fare è quella di ricordare le migliaia di casi che lo confermano. “Pane e Politica”, per dirla alla Riccardo Iacona.
Questa non è Politica e questo Sistema ha smesso da tempo di essere (ammesso che lo sia mai stato) una Democrazia. E’ evidente che siamo tornati al Feudalesimo, al Vassallaggio, e, avanti con il federalismo dell'egoismo, torneremo presto alle Signorie e ai Comuni. Chi amministra il potere è la solita ristretta cerchia di persone, sempre le stesse, sempre più imparentate tra di loro (Bossi, Bossini, La Russa, I Russini, ecc., ecc.).
Non c’è differenza tra chi siede di qua o di là dall’emiciclo dei Palazzi del Potere (guai a parlare di Sinistra o Destra), giocano tutti allo stesso gioco, perfino nella stessa squadra.

Avere schifo di tutto ciò non significa aver schifo della Politica, e il guasto non è colpa di una Democrazia che non c’è.

Al contrario, è necessario tornare ad amare la Politica, rimpossessarsene. Tornare a percepire la Politica come lo strumento per la costruzione del futuro. E’ necessario spogliare l’oligarchia affaristico/mafiosa del titolo di Classe Politica.
Se facciamo un esperimento e sottraiamo la parola “Politica” a posti come Montecitorio, Palazzo Madama, Palazzo Chigi. A cosa ci farebbe pensare tutta quella gente che vi si aggira? Non c'è dubbio, proprio a quel che è: un comitato affaristico/mafioso.

La Politica è un’altra cosa, la Democrazia va conquistata, questi signorotti... scalzati.

martedì 19 ottobre 2010

PIENO DI ME

Vieni cara, odi, una poesia d’amore per la mia micina.

Si chiama:
PIENO DI ME:

“Pieno di me mi scordo del mondo,
pieno di me non ho più freddo,
pieno di me non ho più fame,
non chiedo acqua.
Pieno di me scompare il calendario,
l’orologio,
non rimane più nulla.
Pieno di me non desidero nulla.
Mi annullo in me.”

Piaciuma? …Eh, ahia! Ma, ma perché mi picchi…
NOOOOO CAZZO HA ROTTO IL TASTO DELLA “TI”????!!!!!

venerdì 15 ottobre 2010

GIALLO LATINO


 
La pioggia sferza contro le persiane con cattiveria e i loro corpi la assecondano con movimenti secchi come schiaffi. Amore e passione non gli appartengono. Traspare invece la trama ambigua che alimenta il loro piacere.
I morsi affondano nella carne, eccessivi, e le dita serrate segnano macchie sulla pelle sempre più scure.
I fiati grossi inseguono il crescendo delle spinte di lui. Poi un lampo fissa le loro sagome sulla parete e il fragore del tuono sovrasta le grida concitate dell’orgasmo.
Alla donna schizzano le pupille all’insù, oltre il bianco degli occhi, come in un attacco di epilessia, e la testa le ricade all’indietro. Poi, un rilassamento generale lascia il suo corpo inerme.
Nello stesso istante negli occhi dell’uomo corre un guizzo improvviso e le sue mani si serrano come una morsa sul collo di lei. Senza scampo. Senza lasciare spazio a una reazione.
Ancora gli occhi di lei disegnano un’orbita innaturale bloccandosi definitivamente in un’espressione terrorizzata e interrogativa.
Lui aspetta l’ultimo fremito poi lascia la presa e si alza.
Controlla l’entità dei graffi rimastigli sul corpo. Niente di che. Si riveste, e prima di decidersi a sistemare ogni cosa sente il bisogno di prendere una boccata d’aria.

Apre la porta e un muro d’acqua lo investe.
Continua a piovere ormai da ore, da giorni. Senza interrompersi mai e senza diminuire d’intensità.
L’uomo s’inerpica per la breve rampa che porta all’ingresso della villa, sulla litoranea. Attraversa la strada, completamente deserta. Supera la duna macchiata dalla vegetazione sottomessa al maltempo e davanti ai suoi occhi si apre una mareggiata sconfinata: potente. Biblica.
La striscia lunghissima di sabbia sopporta paziente gli schiaffi delle onde. Onde alte come muri nascono dentro l’orizzonte sfuocato nella pioggia. Una mareggiata che emana la stessa sconfinata potenza che l’uomo ora prova dentro di sé.

Doveva essere l’ultimo appuntamento. Era stato programmato da tempo, e per questo lui aveva avuto tutto il tempo di prepararsi al meglio: la buca già scavata e ricoperta di frasche; i sacchi di nylon comprati in un Iper; e una SIM anonima con la quale ha tenuto gli ultimi contatti con lei.
Perfino quel tempaccio sembrava programmato. In giro, neanche un’anima. Neanche l’ombra degli operai rumeni che d’inverno rifanno il trucco alle case disabitate.

Finito il lavoro, sistemato il cadavere e la casa, l’Audi A6 riparte che è buio pesto. L’uomo rilascia di colpo la frizione, forse per via della stanchezza. Le ruote slittano, ma subito l’elettronica rimedia e l’uomo sorride soddisfatto dell’ultimo acquisto.
*
Alberto è preoccupato e ansioso, e non dà peso all’ansia che trasmette all’amico:
«Certo che devi andare alla polizia! E senza aspettare un minuto di più.»
«Tu sai cosa vuol dire? Basta un niente per montare uno scandalo.»
Anche Mario è preoccupato, e questo lo fa sembrare ancora più vecchio, ma a differenza di Alberto si sforza di ragionare. Prova a valutare la situazione nel suo complesso.
«Mario, non c’è calcolo che tenga! E anche se tutto si risolverà in un capriccio, bisogna fare qualcosa. Lascia stare le conseguenze sulla campagna elettorale, hai un margine altissimo.», poi, in tono greve conclude: «Mario, devi denunciare la scomparsa di Marta. Se non lo fai tu lo farò io!»
*
- Sono contenta che la prendi così. Che mi capisci. Questo è un momento troppo importante per me.
- Mi conosci, no? Lo sai che voglio solo il tuo bene.
- Sì, lo so.
*
«Avvocato! Che ci fa da queste parti?», esclama l’agente all’ingresso.
«Devo parlare con qualcuno di fiducia.»
«Dovrà parlare col nuovo Commissario, avvocato. Come sa dopo gli scandali ora c’è gente nuova. Venga, il Dirigente è un po’ strano ma non è male.»
L’agente bussa, infila la testa nell’ufficio del Commissario e annuncia:
«Dottore, c’è l’avvocato Celoni, – poi aggiunge sottovoce – è quasi Onorevole.»
Il Commissario fa cenno di far passare.

«Commissario Avagliano, la prego si accomodi, avvocato»
Mario Celoni si introduce brevemente e va subito al sodo:
«Commissario, mia moglie non rincasa da due notti.»
Avagliano soppesa il tono delle parole poi domanda:
«Vuole denunciare?»
L’avvocato conferma: «E’ la prima volta che succede!», e aggiunge «Lei sa che tra tre settimane nel nostro Collegio ci sono le suppletive. Beh, io sono il candidato favorito»
«Quasi Onorevole», commenta Avagliano.
«…capisce? In questi casi tutto fa campagna elettorale.»
«So capite», commenta il Commissario nel suo dialetto pescarese scuotendo il capo.
Quindi, prende a informarsi: rapporti nella coppia; abitudini della donna; amicizie; affari, dell’avvocato e della moglie. Tutto.

L’avvocato risponde a fatica – di solito è lui che fa le domande -, ma nonostante questo il Commissario pensa che lì ci sia tanto di quel materiale da indagare fino a fine carriera.
La donna comunque ha sane e precise abitudini e, oltre a lavorare nello Studio del marito, si concede solo palestra e centro benessere. Ma anche in questi limitati spazi l’avvocato ha messo il naso e scoperto che entrambi le strutture appartengono a un certo Fiumani, un tipo con precedenti per truffa e droga, ma che ora pare a posto. E sa di alcuni contatti tra l’uomo e sua moglie.

«Avvocato, - stringe Avagliano - verificheremo i ricoveri ospedalieri e tutte le segnalazioni d’incidenti. Per indagini più approfondite però, Fiumani ad esempio, ci vuole la formalizzazione della scomparsa.», poi, cambiando tono, «Mi dica, ipotizzando che sua moglie abbia deciso di allontanarsi volontariamente, potrebbe alloggiare in qualche vostra proprietà sfitta?»
«Beh, ne abbiamo diverse di proprietà libere: qui a Latina; una casa a Sermoneta che fittiamo l’estate; la villa di Sabaudia… e poi c’è la casa a Cortina…»
«Ok, ok – lo interrompe Avagliano –. Verifichi se le chiavi ci sono tutte e se sono al loro posto. Semmai daremo un’occhiata, almeno a quelle più vicine
*
- Un figlio è tutto quello che ho sempre desiderato dalla vita, lo sai?
- Sì, lo so.
- E tu? Cosa farai ora?
- Io? Beh io…
*
Decisi a fare visita alle proprietà sfitte, l’avvocato e Avagliano siedono sui sedili extralusso della Mercedes.
L’auto sfreccia indifferente alla pioggia che cade copiosa e ai fiumi d’acqua che tagliano i tornanti che s’inerpicano per i Lepini.
«A lu mare ha ditte!»
«Come dice, Commissario?»
«Il mio Superiore, mi aveva detto: “Ti mando al mare”. E lu mare ecche sta sopre e sotte.»
«Aaah…»

Il tour per le case vicine, che l’avvocato è riuscito a ricordare di possedere, si rivela un buco in un mare d’acqua, ma con almeno un paio di aspetti decisamente positivi.
Il primo è stato il pranzo che Celoni ha voluto offrire ad Avagliano – offertogli a sua volta da un ossequioso ristoratore –. Un pasto eccezionale, in perfetto equilibrio tra il mare e la montagna. Annaffiato da un sorprendente moscato del Circeo.
Il secondo aspetto: i panorami carichi di sfumature di colore che si insinuano nell’animo del Commissario, commosso dal cibo e dal vino, e che gli strapazzano le viscere.
*
- Marta, vediamoci un’ultima volta. Per dirci addio. Poi tu e il tuo bambino ve ne tornerete da lui ed io sparirò per sempre dalla tua vita.
- D’accordo. Un’ultima volta.
*
«Allora Mario, chi è questo?» Alberto sgrida l’amico come un bambino. «Il fatto che ti abbia accompagnato in gita, pranzo incluso, non è un’indagine! E intanto di Marta nessuna traccia!»
Mario tiene lo sguardo basso.
«Può essere successo di tutto! – prosegue Alberto – Un incidente, ci sono frane, alluvioni ovunque! E poi quel Fiumani! Sai bene chi è, e sai anche che si vede con Marta.»
«Te l’ho detto, per lui occorre la denuncia.»
«E allora rivolgiamoci ai nostri amici
«No! Non voglio mettere in mezzo quella gente. Dentro loro, io non avrò più nessun potere. E poi questo… Avagliano, è uno discreto. Dobbiamo stare calmi, Alberto.»
«Non ci riesco. Non sopporto l’idea di non poter fare nulla per riportare a casa Marta.»
«Alberto, - fa Mario greve - mi convinco ogni istante di più che Marta se ne è andata di sua volontà. E’ questo forse che temo di scoprire.»
Li interrompe il telefono.
«Pronto?»
«Avvocato, Avagliano. Ho da darle una terribile notizia»
*
«L’ha trovata un Forestale, durante un’ispezione.»
Una pioggerellina fina penetra il tetto di vegetazione e cade dritta sulle loro teste. Avagliano, Celoni e un paio di agenti, osservano attoniti la scena.
La fossa dove il cadavere di Marta era stato sotterrato è stata completamente scavata dai cinghiali. Il sacco di nylon nero, strappato in più punti, scopre parti del corpo nudo. Un pallore assoluto contrasta col fango che lo insozza.
La cosa più impressionante però è il volto di Marta, con gli occhi sgranati di terrore e di incredulità.
«E’ assurdo! – esclama l’avvocato sconvolto – chi può aver fatto una cosa del genere? Chi ha potuto farle questo?», e d’istinto si appoggia ad Avagliano che è costretto a offrirgli il suo supporto.
Attorno a loro cala un silenzio irreale. Si sente solo il suono della pioggia che carezza il pelo immobile dell’acqua del lago.
D’un tratto il fragore di un motore infrange il silenzio e un istante dopo Alberto irrompe a valanga:
«Mario! Marta!»
Alberto si getta nella fossa e s’inginocchia sul corpo della donna. Avagliano con uno scatto improvviso lo afferra per la collottola e lo ricaccia fuori. Poi, furibondo, lo aggredisce:
«Ma chi cazze si’ tu?»
«Ma chi è lei?» gli si rivolta questi sostenendo l’occhiata astiosa.

Nel giro di pochi minuti la solitudine mistica del luogo leggendario è spazzata via dall’operare frenetico degli investigatori. E il buio, precoce, violentato dalle fotoelettriche e dai bagliori blu dei lampeggianti.
L’avvocato non dice una parola ormai da parecchio. Si è rintanato dentro la villa ed ha perfino smesso di pensare alle elezioni.
Alberto, invece, fa la spola tra il bosco e la casa. S’intrufola tra gli agenti della scientifica ostacolandone il lavoro, toccando tutto, poi torna dall’amico per cercare di consolarlo con frasi inascoltate e banali.

«Allora?», domanda Avagliano al Capo degli uomini della Scientifica.
«Di sicuro è stata strangolata, ma il resto è tutto da capire.»
Il Commissario non si aspetta di più. Si aggira nervoso, e qualcosa lo infastidisce nel colletto della camicia. Non sa cosa fare. Non ha senso interrogare l’avvocato ora. Così, un po’ per ingannare il tempo, un po’ per una sincera antipatia, decide di interrogare quel tale Alberto.
Si chiudono in cucina:
«Signor Mardegan, le dispiace ripetermi in che rapporti è con la famiglia Celoni?»
«Sono suo socio»
«Unico socio?»
«Sì, ma con quota simbolica direi. Principalmente, però, mi ritengo amico di famiglia. Per Mario quasi un figlio ed ero molto affezionato a Marta.»
«E in merito al delitto?»
«Non so …o meglio, preferirei non sapere.»
«Sospetta qualcosa?»
«Marta era molto più giovane di Mario. Lui sempre impegnato, ora anche con la candidatura – fa una pausa – Fatico addirittura a pensarlo… sì, insomma, lei lavorava allo Studio tutto il giorno, eccetto…»
«Eccetto la palestra e il centro benessere del Fiumani»
«Esattamente.»
«Quindi sospetta...»
Avagliano non riesce a concentrarsi, si tocca continuamente il collo, poi all’improvviso domanda:
«Mi scusi, ci sono delle forbici?»
«Sì», Alberto apre un cassetto prende le forbici e le dà al Commissario, il quale si allenta il colletto della camicia, taglia di netto l’etichetta ed è subito più tranquillo.

Nel frattempo, fuori, i rilevamenti sono terminati e il cadavere rimosso. Ad Avagliano, quindi, non rimane che andarsene. Alberto, invece, sembra non volerne sapere, segue tutto e scorta il Commissario alla sua auto.
Appena questi avvia il motore e imposta la sterzata per risalire il vialetto, Alberto fa un cenno con la mano. Avagliano non capisce.
«Allarghi la curva, altrimenti slitta e resta lì.», spiega Alberto.
Avagliano lo guarda perplesso.
*
- Certo chi l’avrebbe detto!
- e sì, dopo tanti anni chi ci credeva più! Per prima io… questo sconforto mi ha spinto verso di te. Solo adesso me ne rendo conto.
 - Così mi ferisci.
- Ma è la verità.
*
Man mano che arrivano i riscontri il quadro si fa più chiaro, ma solo a sera Avagliano ha elaborato una strategia.
Esce ed è già buio. Decide di andare a piedi e chiede di essere raggiunto da una pattuglia di lì a una mezz’ora.
La pioggia s’è fatta fina come la nebbia, e come la nebbia penetrante e fredda.
Avagliano percorre un tratto di Corso della Repubblica, all’altezza di Piazza San Marco prende per Via Gramsci e in pochi minuti è nel lussuoso Studio dell’avvocato Celoni.
La segretaria lo accompagna dall’avvocato e dopo pochi secondi arriva anche Alberto.
«Ah, Commissario!», esclama questi fingendo stupore.
Avagliano lo fulmina con uno sguardo, poi rivolto all’avvocato:
«Le dispiace? Avrei bisogno di parlare da solo con lei.»
Alberto esce sbattendo la porta.
«Andavate spesso alla villa di Sabaudia?»
«Soltanto l’estate.»
«E il suo socio? »
«Lui poi! Al massimo ci sarà venuto un paio di volte. D’estate è sempre in barca. Ma mi scusi, che c’entra questo?»
«Curiosità. Mi dica, invece, la disgrazia ha cambiato i suoi progetti?»
«La candidatura?», Avagliano annuisce, «No. Vede Commissario, spesso ci sono cose più grandi di noi. Perciò, io sarò eletto come previsto e lo Studio sarà affidato ad Alberto.»
«Al suo socio? Capisco… Lei sapeva che Marta era incinta?»
Celoni sgrana gli occhi e il fiato gli rimane incastrato in gola che quasi soffoca. Poi, prova a rispondere:
«Ma cosa dice, Commissario? Io e mia moglie ormai c’eravamo rassegnati a non avere…»
«Avvocato, può chiamare il suo socio?»
Celoni, frastornato, fa chiamare Alberto che li raggiunge poco dopo. Avagliano domanda:
«Signor Mardegan, può spiegare al suo amico perché ha ucciso Marta?»
«Ma cosa diavolo dice!» fanno all’unisono i due a un passo dall’aggredire il poliziotto.
«Signori! - li blocca Avagliano - Io posso garantire, e a breve anche dimostrare, che Mardegan è stato nella villa di Sabaudia insieme a Marta, che i due hanno fatto l’amore e che poi lui l’ha uccisa. Quello invece che non posso dire è perché l’ha fatto.»
Il volto di Alberto è teso e livido, mentre quello dell’avvocato inondato da una rabbia cieca.
«Convincimi Alberto! Convincimi che questo signore è un pazzo e si sta inventando tutto. Convincimi, perché se non ci riesci per te al mondo non esiterà posto sicuro. E non manderò sicari a cavarti gli occhi. Lo farò io, con le mie mani!»
«Mario, non crederai mica…»
«Signor Mardegan, - insiste Avagliano - avere le prove sarà un gioco da ragazzi.»
«Bastardo!» Mario afferra Alberto per il collo. «Bastardo! L’hai messa incinta e poi l’hai ammazzata!», gli urla stringendo deciso.
Alberto si dimena, cerca di liberarsi. Guarda implorante Avagliano che non muove un dito. Infine, a fatica, riesce a biascicare:
«Fermati, ti prego!»
Mario ha un’esitazione, Alberto respira, tossisce, recupera la voce:
«Sì! Sono stato io.»
«Non hai accettato tuo figlio, vero?»
«No, quel il figlio era tuo. Marta ne era certa», Mario ha un tonfo al cuore e sente la testa esplodergli «...e per questo aveva deciso di lasciarmi.», conclude Alberto.
Mario si libera di lui come d’un cencio:
«Come hai potuto fare una cosa così atroce? Come hai potuto portarmi via mia moglie e mio figlio, Come?! Figlio di puttana!»
«Perdonami ti prego. Non ce l’ho fatta. Non sopportavo che Marta mi lasciasse.»
«Che cazzo dici!», ruggisce Mario.
Avagliano, che ha appena chiuso il telefono, lancia ad Alberto un’occhiata disgustata e domanda:
«Mi dica, Mardegan, cosa pensava la signora del fatto che a breve lo Studio sarebbe passato nelle sue mani? Che lei sarebbe diventato il suo Capo mentre suo marito, con ogni probabilità, sempre più lontano? Come si conciliava tutto questo con la volontà di Marta di lasciarla?»
«E’ per questo, allora! Marta non voleva che tu prendessi lo Studio!»
«E ancora, - prosegue Avagliano - cosa sarebbe stato del suo rapporto paterno con l’avvocato ora che un figlio lo avrebbe avuto davvero?»
L’irruzione degli agenti blocca sul nascere la reazione di Mario ed Alberto viene portato via.
*
Avagliano preferisce camminare, annusare quei posti che, pian piano, lo stanno conquistando, alla ricerca dell’umore della pioggia.


giovedì 14 ottobre 2010

INSEGNAMO L'ECONOMIA AI BAMBINI




Da almeno venti anni bambini e ragazzi sono diventati i veri protagonisti dell’economia. Non servono dati certificati (tanto tra qualche tempo ci penserà il solito studio di questa o di quella università inglese o americana a farlo) per poter affermare che la maggior parte del denaro che è nella disponibilità di una famiglia media (al netto di mutui e spese fisse) è movimentata, direttamente o indirettamente, da bambini e ragazzi.
Dai minori, insomma. E per minori si intende la fascia che va dai 0 ai 18 anni (oltre i 18 il danno diventa irreversibile).
Da 0 anni, ovviamente, o anche da sottozero, da quando, cioè, la bella coppia di turno scopre di essere in dolce attesa. Sì, perché ancora prima di venire alla luce, il giovane “consumatore” già smuovere l’economia. Determina spese che incidono significativamente sul bilancio familiare. Inizia allora e non smette più, divenendo di giorno in giorno più determinato e autonomo nell’indirizzare le spese da una parte o dall’altra: tale (video)gioco; tale marca di scarpe; tale “terminale” (impossibile continuare a parlare soltanto di telefonino); e quant’altro.
Altrettanto ovvio e scontato, quindi, che da anni preparatissimi e fini pubblicitari si rivolgano a costoro per cercare di conquistarne l’interesse per i propri prodotti e, soprattutto, intercettarne il denaro potenzialmente nella loro disponibilità. Anche quando il prodotto sembra lontano mille miglia dalla loro sfera dall’interesse (penso alla miriade di pubblicità di automobili con protagonisti, o che si rivolgono direttamente, ai nostri piccolo cuccioli – Papà ha quella macchina perciò papà è “così”, la nostra famiglia è “così”, come nella pubblicità).
Ma tutto quanto fin qui affermato è assolutamente noto. Nulla di nuovo, giusto? E allora, perché questo gruppo?
Be’ perché se tutti siamo coscienti e convinti che sono i ragazzi a pilotare le nostre tasche, le tasche delle famiglie, non tutti sembriamo sufficientemente convinti sulla necessità di dare loro gli strumenti opportuni per gestire “consapevolmente” le loro… cioè, le nostre tasche.
Diciamocela tutta fino in fondo, se ci troviamo in quanto scritto sopra significa che non siamo poi così bravi a gestire il denaro neanche noi. Se mettiamo in mano ad un bambino ingenuo ed inesperto cifre tanto significative (no, non fate le smorfie, contate le consolle di videogiochi che avete in casa, sommate i loro costi e poi…), se gli diamo un così grande potere, vuol dire che neanche noi siamo dei geni della finanza. Non è vero?
Ok, la cosa più logica da fare, verrebbe da dire, è che noi, i grandi, imparassimo a gestire diversamente i nostri soldi. Ma questa soluzione presenta alcune controindicazioni:
- la prima è che se non l’abbiamo fatto fino ad ora un motivo deve pur esserci;
- la seconda è che “siamo grandi”, appunto, ossia le nostre strutture e sovrastrutture sono un pesante fardello che non ci aiuta a cambiare abitudini consolidate;
- la terza, infine, è che per gestire diversamente il denaro in casa dovremmo cominciare a dire dei “no” ai nostri figli. “No” motivati, faticosi da spiegare, “no” da negoziare. In sostanza dovremmo ricominciare a educare i ragazzi. Cosa che abbiamo smesso di fare (guarda un po’) da circa un ventennio.

E allora quale può essere l’alternativa?
La mia proposta è: mettiamo i minori in condizioni di combattere ad armi pari con l’impero del consumo.
L’impero del consumo aspetta la nascita dei nuovi “clienti” presidiando le sale parto, omaggiando, pasturando, e non li abbandona mai, neanche un istante, neanche al bagno: ricordate una famosa pubblicità di carta igienica con un bimbo sulla tazza?
L’impero del consumo è potente, serio, preparato, istruito. Noi, poveri genitori, no! Noi non abbiamo quasi mai gli strumenti, formativi, informativi, professionali, per fronteggiare l’impero del consumo.
L’unico strumento che più o meno tutti gli adulti dovrebbero avere a disposizione dovrebbe(/potrebbe) essere il “saldo in cassa”, cioè, quanto denaro si ha da spendere. In base a questo strumento un adulto dovrebbe(/potrebbe) valutare la fattibilità o meno di una spesa, invece, a giudicare da certi indebitamenti, neanche questo strumento pare funzioni bene.
Insomma, guai a pensare: “Ok, allora gliela insegno io l’economia al mio bambino”.
No! Ci vuole una formazione potente, seria, professionale, per fronteggiare l’impero del consumo. E va insegnata dal primo giorno di vita. Meglio se fatte ascoltare le lezioni tramite cuffia, direttamente dentro la pancia.
La mia proposta, quindi, è l’istituzione della facoltà di Economia per minori da 0 a 18 anni. “Consumatori alla nascita”.
Il mio invito perciò è rivolto a tutti coloro che, intendendosi di economia e di pedagogia, a vario livello, possa preparare piccole lezioni di economia da sottoporre a bambini e ragazzi compresi nella fascia di età target.
Lezioni scritte da leggere come favole, storielle simpatiche (in funzione dell’età a cui ci si vuole rivolgere), video lezioni caricate su Youtube, audio guide.
Costituiamo l’enciclopedia economica per ragazzi. Sì, ma libera e indipendente!
Diamoci da fare, la parola d’ordine è difendiamoci coi nostri figli, non scudi umani, ma teste di cuoio per fronteggiare l’impero del consumo. Loro ci fottono i nostri miseri stipendi? Almeno…,
FACCIAMOGLIELA SUDARE!!!

FRA’ PATTINO

Corso Vittorio, Rome, Italy. Ma soprattutto Rome, pieno centro città, e soprattutto ore 17,45: un delirio di traffico.
Ma a Roma il traffico non significa soltanto la presenza di un numero di veicoli in circolazione superiore alla capacità di smaltimento della rete viaria. A Roma traffico vuol dire file disordinate di macchine che zigzagano senza segnalare i cambi di corsia, moto e motorini che sfrecciano a tutta velocità trasgredendo anche le più elementari norme del Codice Stradale, pedoni che sfidano la sorte con attraversamenti improvvisi e perennemente distratti dall’utilizzo del telefonino.
In mezzo a questo bailamme, in mezzo alla strada, proprio al centro della via, nel cuore di Roma, Fra’ Pattino si materializza come in un miracolo.
Saio avana con pettorina marrone, fisico asciutto, barba nera e folta, movimenti plastici, fluidi, esperti. Il busto inclinato in avanti, una mano dietro la schiena mentre l’altra oscilla seguendo l’ondeggiamento delle gambe, le gambe che producono spinte postero-laterali che si trasferiscono alle ruote dei pattini.
Sfreccia come una saetta, più veloce di un’automobile, più agile di uno scooter. Fra’ Pattino è davvero forte. M’incrocia e in un istante mi supera e sparisce lasciandomi un desiderio frustrato di fare la sua conoscenza:
FRA’ PATTINO, DOVE SEI?
FRA' PATTINO: L'UNICO POSSIBILE FUTURO DI SANTA ROMANA CHIESA!

mercoledì 13 ottobre 2010

ITALIA-SERBIA 0-3 …Anzi, no 3 a 0


Alle 21 circa cambio canale e metto RAI1. Tengo il volume basso, però, perché il discorso che stiamo facendo è serio e interessante e non intendo distrarmi. Tanto lo schermo proietta il solito sfondo verde, come fa 5 giorni su 7, e poi ancora non si gioca. L’attenzione riprende il filo del ragionamento che va avanti per la sua strada.
All’improvviso qualcosa richiama la nostra attenzione e ci voltiamo a guardare la TV. La Polizia, i Celerini, accalcati in un angolo dello stadio – realizzo che si tratta del Ferraris di Genova –, presidiano un varco davanti alle gradinate e sfidano una tifoseria infuocata.
L’attenzione aumenta, ma che succede?, ci domandiamo, mentre spalanchiamo le orecchie per dare un senso alle voci concitate dei cronisti contenute dal volume al minimo.


“…ora la Polizia ha sgomberato fotografi e giornalisti e si prepara alla carica, tra poco ci sarà la carica…”.
“purtroppo, ancora una volta ci troviamo a dover fare la cronaca di un evento che nulla ha a che vedere con lo sport…”
“…no, pare che la carica non ci sarà. Non caricano più.”

«Ma che sta a succede lì», ripete la persona al mio affianco.
Rispondo che non lo so e mentalmente comincio ad abbozzare qualche scenario possibile:
- La Nazionale gioca col lutto al braccio per i 4 militari morti in Afghanistan;
- a Geneva tra tifoseria Ultras e antagonismo il confine è labile, lo abbiamo visto al G8.

Le telecamere intanto inquadrano scene note: facce coperte dai foulard, teste incappucciate nelle felpe, braccia muscolose e ricoperte di tatuaggi, oggetti familiari e mansueti che in un attimo si trasformano in perfetti attrezzi da devastazione.
Azzardo: «non so, forse gli Ultras contestano il minuto di raccoglimento in onore dei militari.».
Ci sta, e anche le voci severe dei cronisti sembrano confermare. Mentre si continua a non giocare.

Torniamo di nuovo al nostro discorso, ma un tarlo m’è entrato in testa e fatico a seguire la conversazione: possibile che questi quattro scalmanati siano arrivati a tanto? Possibile che si sia alzato così tanto il livello dello scontro?
Ripenso ad una notizia passata al TG qualche minuto prima: il lancio di uova alla sede della CISL, seguita dall’immancabile solita scia di triti moniti contro la violenza. Ripenso al mio commento: “uomini di pace, preparatevi alla guerra. Chi ruba il futuro delle nuove generazioni si prepari a pagarne il conto. E sappia che lo scontro sarà duro, e cruento”. E la protesta degli Ultras del Ferraris mi sembra inserirsi perfettamente nel filone dell’attacco alla sede del Sindacato Concertatore.

Intanto la contestazione continua e di giocare non se ne parla. “Ammazza che lavorone ‘sti qua”, penso mentre fatico sempre di più a seguire il discorso in casa.
La Celere controlla a distanza i rivoltosi che devastano le tribune. Sul campo, dirigenti sportivi, responsabili della sicurezza e giocatori, confabulano e corrono di qua e di là, inseguiti dalle voci dello speaker che commenta la scena come se si trattasse di un’azione da goal - penso che i commentatori del calcio non sappiano parlare diversamente e che usino lo stesso tono da cronaca anche quando fanno l’amore: “s’impossessa della tetta, la palpa con vigore… dribla la mutanda di pizzo e va in gooooooaaallllll” -.

Un coro marziale cattura la mia attenzione. Il volume del televisore sembra alzarsi all’improvviso e l’inno di Mameli che mi arriva è più fastidioso del solito.
Cosa succede? Ma sì, è chiaro! Lo stadio reagisce e intona con una sola voce l’inno patriottico in risposta al gruppetto di facinorosi.
Eccolo il Sano e Santo Popolo italiano che isola la frangia ribelle.
Ripiombo bruscamente nella realtà. L’antagonismo, l’opposizione, la ribellione, è minoritaria, minoranza, perciò va, ed è stata, giustamente emarginata, zittita. Ammutolita dal coro dei Fratelli d’Italia.
Una fitta di dolore mi attraversa da capo a piedi. Non che ciò mi sconvolga, da sempre le rivolte sono state compiute da minoranze, ma già mi immagino tutta la retorica odiosa che si scatenerà all’domani di questo evento. Un’altro, l’ennesimo, bruciante schiaffo in faccia al dissenso.


 In breve a Marassi torna la normalità e addirittura l’incontro ha inizio. L’Italia parte forte e si procura importanti azioni da goal. Torna la normalità, tutto normale, come prima, fatta eccezione per l’Italia che continua ad attaccare forte, era parecchio che non la si vedeva attaccare con convinzione. Ora ho abbandonato definitivamente la discussione e, rassegnato, provo a seguire la partita.

L’arbitro non fischia un rigore che forse c’è, ma fischia per un fatto non di gioco. Lo speaker, col solito tono da cronaca, commenta azioni fuoricampo. La telecamera inquadra un petardo esploso sull’erba. La partita è nuovamente interrotta. Definitivamente, forse. Sì, partita sospesa e vittoria a tavolino.

ZERO a TRE, ZERO a TRE a tavolino.

L’Italia perde zero a tre con la Serbia… Anzi, no. Ascolto meglio… No, è TRE a ZERO ,  TRE a ZERO a tavolino, è l’Italia a vincere. I nostri, lutto al braccio, lasciano il campo accompagnandosi con timidi applausi in direzione delle tribune.

Ma allora cos’è successo davvero? Ho sognato? Alzo il volume. Ah, ecco. E’ la tifoseria Serba autrice della rivolta, anche se non capisco per quale motivo contestano.
E sì, ora le parole dei commentatori sembrano avere un tono diverso, ancora più calzante col nuovo senso degli avvenimenti: LORO sono i cattivi e NOI i buoni.
Dietro i microfoni, voci severe e intransigenti si scagliano contro quest’assurdo spettacolo, si interrogano se i nostri poveri tifosi avranno il biglietto rimborsato: ma certamente, figuriamoci, noi siamo un paese Civile. E lo spettacolo al quale abbiamo dovuto assistere è davvero indegno.
Collovati, uno dei commentatori, è indignato, furibondo, fuori di sé: “come si può permettere – si interroga dall’alto della sua erre moscia -, come si può consentire a questa gente di venire da Noi a sfasciare i Nostri autobus, i Nostri Autogrill e a impedirci di assistere alla Nostra partita di calcio.”.

Ora riconosco l’Italia in cui vivo, la sua voce, i suoi slogan. Eccolo lo straniero che viene ad infastidirci. Eccoli i barbari, gli incivili, che stuprano le nostre donne (da noi in famiglia non succede invece), che ci rubano il lavoro, ci rubano in casa, che non rispettano delle nostre leggi. Fermiamoli!!!

...E Viva l’Italia vittoriosa 3 a 0 a tavolino sulla Serbia.

martedì 12 ottobre 2010

Certe volte pare che... "IL MONDO GIRA ALLA ROVESCIA"

Ok, ok, ho commesso un errore, lo ammetto e faccio mea culpa. Ma perché la signora della palestra s'è sentita in diritto di trattarmi come un ladro?

Sì, colpevolmente io ho lasciato il portafogli nella tasca dei pantaloni appesi sull'attaccapanni dello spogliatoio, ma quelle parole:

"Lei non si deve permettere! Non lo deve fare mai più! Mai più! Ha capito?".

Insomma, ma è possibile che ci ho più colpa io di quel figlio di puttana che m'ha fregato i soldi???

E' proprio vero: Certe volte pare che...



...il mondo gira alla rovescia

lunedì 11 ottobre 2010

MAZZULLO, ANIMA ROCK!

Una voce strascinata e antipatica. Una voce da padrone di casa, che, proprio come un padrone di casa, non si cura di farsi gradito all’ospite: se ti va è così se no, fuori dalle palle.
Quante cazzate, quante oscenità, bestemmie, infamità, ovvietà, demagogia, vomitate da quella bocca di cui non ho mai conosciuto le fattezze, ma che ho sempre immaginato impastata, legata da eccessi di alcol e sigarette.
La voce di Paolo Mazzullo, lo storico fondatore e padrone di RadioRock, mi ha sempre procurato l’istinto di cambiare canale. Non resistevo più di qualche secondo ai suoi ragionamenti malati, alla sua arroganza. L’arroganza di chi ha un microfono in mano e può strillare più forte di te.
Ma di certo non gli si poteva negare il diritto a gridare dentro a quel microfono. Se lo era guadagnato. A lui, infatti, va il merito di aver fatto di un sogno una realtà. Una realtà capace di fondersi con le realtà di tante altre persone, compreso me.
Sì, perche malgrado Mazzullo, malgrado quella sua sporca voce e le sue idee del cazzo, RadioRock è stata la compagna di viaggio di tanti giovani ed ex-giovani romani. E, nel bene e nel male, anch’io non sarei così come sono oggi sono se non ci fosse stata RadioRocck. Se non ci fosse stato quello maledetto Mazzullo e il suo lavoro, la sua tigna.
Apprendo così della sua morte a 52 anni con un sentimento indefinito.
A una iniziale indifferenza (è parecchio tempo che non riesco più ad ascoltare quella che per tanto era stata la “mia” Radio) segue una punta di “quasi” soddisfazione (la speranza che nell’etere possa circolare qualche idiozia di meno -?-) che subito si spegne. Infine, non riesco a reprimere un senso di vuoto e un lieve dolore che fatico a confessare perfino a me stesso.
Mi domando cosa sia quel vuoto e mi rispondo con facilità: si è spenta un’anima Rock; si è fermato un cuore Rock. E c’è sempre qualcosa da perdere quando si perde un cuore Rock.
Non so se la Radio riuscirà a sopravvivere alla scomparsa di Mazzullo. Già da tempo le voci ai microfoni hanno tutte lo stesso suono, identico tono. Già da tempo dalle frequenza della Radio manca l’originalità di un tempo e il populismo profuso a mani piene (populismo madre e padre del “popolo” di RadioRock), ha appiattito gli spigoli e le profondità che qualche speaker riusciva ancora a scavare nei cuori e nelle teste degli ascoltatori. Probabilmente i 106.600 della FM diventeranno presto uno spazio di conquista per lo spaccio delle solite inutili merci.
Sono sicuro, però, che non sarà la Radio a mancarmi, questa è una cicatrice vecchia ormai chiusa, di certo sentirò la mancanza di un’ANIMA ROCK.

venerdì 8 ottobre 2010

IENE! ...della Cronaca

Bastano poche molecole di sangue combinate all’aria che s’infila su per il naso. Un vago sentore di morte. Basta un guaito lontano, un flebile lamento che lascia presagire la sofferenza della bestia ferita. Basta un niente a scatenare l’eccitazione convulsa, il vociare assordante e concitato delle IENE.
Ed eccole le IENE che si gettano sull’ultimo CASO di CRONACA, che affondano la testa nelle viscere squartate della vittima, eccole strappare brandelli di carne, bere il suo sangue ancora caldo e leccarsi i baffi.
SARA, è il titolo dell’ultimo Caso di Cronaca con cui oggi si sfamano le bestie. L’ultimo pasto. Troppo lungo sarebbe l’elenco delle vittime del branco che, limitandosi all’era della TV vanno da ALFREDINO ai FRATELLINI di GRAVINA e oggi a SARA.
Le IENE non risolvono i Casi non agiscono secondo una morale, debbono soltanto di sfamare la loro insaziabile fame. Girano attorno all’animale agonizzante cercando di anticiparne il destino. Interpretano il Destino quando, avvicinandosi a un Caso, ne decretano l'inevitabile sorte. Non che le IENE portino sfiga, è che dal sangue e dalla morte che loro traggono nutrimento.

Fermarle non è possibile, è l’istinto che le guida. Inutile provare a modificarne l’indole, a domare la bestia. Saranno sempre lì, pronte a gettarsi sul prossimo Caso, non appena un fremito nell’aria porterà nuovi segnali di sofferenza, altro odore di sangue e di morte. E più tarderà quel pasto e più feroce sarà il prossimo assalto.

Ma se non è possibile fermare il branco famelico, perché non si riesce almeno a tapparsi le orecchie e zittire quel canto malato? Perché ci ostiniamo ad assistere al putrido banchetto? Perché ci facciamo partecipi di quell’osceno sabba?
Nel mondo animale, nel nostro mondo, la domanda da porci deve essere di tipo “funzionale”: quale funzione, quale ruolo, quale servizio al Sistema offrono le IENE?
Allora basta guardare l’infame capannello per trovare la risposta. Basta osservare le bestie mentre spolpano le ossa della tragedia fino a l’ultimo residuo di dolore, mentre bevono il torbido liquido del dramma. Basta guardare il vuoto che lasciano a lavoro finito. Un fantastico lavoro, non c'è che dire.
Le IENE imbandiscono la tavolata con la tragedia, distendono al centro della piazza i corpi della/delle vittime del Sacrificio. Condiscono il piatto col vero e col falso, con la lacrima e con l’urlo, con la preghiera e la bestemmia, con la verginità e la sodomia. Spremono l’animo umano cavandone tutto lo sporco.
Mettono tutto fuori. E tutto il male è lì, in mezzo alla piazza. Poi, danno inizio al Sacro banchetto. Ingurgitano tutto e fanno pulizia di tutto.
Noi osserviamo e partecipiamo al rito convinti che ciò ripulisca anche lo sporco, il male, lo schifo che abita dentro ognuno di noi.
Questo è il prezoso lavoro delle IENE, spazzini dei sottoscala delle nostre anime.