La Badante
“D’improvviso, la testa si riempie di
un frastuono di vento...” Mi
ricorda certi giorni sulla collina. In quei giorni di vento ci salivo apposta,
lassù, a offrire l’adolescenza che mi mordeva in corpo ai primi cenni d’estate.
Mentre il paesaggio, ingenuo, nascondeva le crepe dell’inizio della fine.
Crepe che svuotavano i negozi,
svuotavano le pance, e poi… Poi tutto accadde di colpo. Sentivo di fatti che
non capivo, mentre altre cose le vedevo coi miei occhi: balordi che sfrecciavano
dentro Mercedes prepotenti, e la gente che partiva, quasi senza nostalgia.
«Pure lo storpio dei Zaniewski è
partito. E tu, Irina? – mi sputava addosso mio padre - Ma chi ti piglia a te,
brutta cagna».
«Non ascoltarlo, – ripeteva mia madre
- con tutte le cose che abbiamo da fare».
E imparai a non sentire e a darmi da
fare. Fui presto sola, però, con due vecchi da tirare avanti. Facevo, facevo e
ripensavo al giorno che mi fu offerto un impiego a 400 chilometri da casa.
Corsi alla collina, poi, colma di vento, tornai a casa a dare la notizia. Ma quel
giorno ci si mise anche mia madre a seppellirmi con calci e pugni: «Bastarda!
Vuoi abbandonarci!».
Non li abbandonai, ma alla fine furono
i vecchi, prima mio padre e poi mia madre, ad abbandonare me. Rimasi sola. Cominciai
a lavare, spazzare, spolverare, come impazzita. E così, con lo strofinaccio in
mano, mi trovò Svetlana. Mi raccontò di Nina, sua sorella che stava in Italia,
finì dicendo: «…e tu, Irina, che ci fai ancora qui!». Decisi di partire in quel
momento, ma poi non ci pensai più. Finché Svetlana tornò, eccitata, agitando una
lettera: «Parti, Irina, vai a Roma». Roma, vedevo già le sue bellezze, mentre Svetlana
aggiungeva, storpiando: «…Bur-ga-da Finochio». Iniziai i preparativi.
Finito, mi meravigliai di quanto
piccolo e leggero fosse il bagaglio. Rifeci la casa da cima a fondo, convinta
di aver dimenticato chissà che. Ma no, la mia vita era proprio tutta in quelle
poche cose. Ebbi una vertigine, che
sciolsi dicendomi di non aver mai vissuto attraverso le cose. Quindi chiusi la valigia e salii sull’auto che mi portava al
pullman. Mi voltai indietro e nel lunotto infangato che sfocava le luci del
villaggio, lessi la domanda: sto fuggendo o cerco ciò che non ho più? Mi si
strinse il petto.
Alla fermata del bus venne a prendermi
Adele che appena mi vide domandò: «I bagagli?». Arrossii. Marta, invece, ci
aspettava a casa, contraria alla decisione della sorella di prendere una
badante. L’odio tra le due si palpava: occhiate taglienti, movimenti a scatto e
sbuffi di fiato dalle narici dilatate. «Parli italiano? Capisci quello che
dico?», gridava Marta. Io annuivo meccanicamente: «…e sai accudire una vecchia?
Sai cucinare?», stretta nelle spalle, facevo cenno di sì, ma ero stordita da
una tormenta di vento.
«Basta, Marta! – intervenne finalmente
Adele - Vieni, Irina, ti presento Mamma.» La vecchia, seduta sul letto
dentro una nuvola di cuscini, pareva scrutarmi l’anima. Si riebbe dalla fissità
con un flebile rantolo: «E tu, chi si’?», «Irina», risposi tentennante.
«Buttana! – tuonò quella, indemoniata – Vattenne, buttana!». Feci un balzo,
mentre Marta usciva sentenziando: «Tanto non duri!»
Invece, durò. Con Mamma avevamo
raggiunto un certo equilibrio e, in buona, mi chiamava come sua sorella. Anche
Finocchio non era male. Era tutto insieme e tutto diverso: razze, mestieri,
lingue, bisogni, facoltà. Lì, essere diversi era l’unico modo di essere uguali.
E così mi unii a quelle diversità costruendo le mie abitudini.
Uscendo di casa salutavo Franco – stava
scritto sulla sponda del suo camioncino sgangherato: “Sgombri e Trasporti,
Franco” –. Non conoscevo quell’uomo, lo salutavo perché mi piaceva il suo giardinetto
e lui rispondeva grugnendo qualcosa con voce di carta vetrata. In borgata avevo
qualche amica, ma quando ero libera prendevo l’autobus e andavo in centro. Lì
incontravo Nina e l’altra metà del mio Paese emigrata. Ma soprattutto trovavo
il vento di Roma, che sferzava tra monumenti eterni, vortici di foglie, e
dentro la mia testa.
Anche quel giorno avevo deciso di
andare. Nonostante lo sciopero, nonostante la pioggia, alle 8,30, ero alla
fermata del bus. Speravo in un crumiro e invece arrivò Franco col suo
camioncino. Inchiodò per guardarmi il sedere, ma quando mi riconobbe disse: «Voi
‘no strappo?». Era la prima volta che lo sentivo parlare e allora capii che quel
grugnito da cinghiale non era un lamento, ma la sua voce di carta vetrata. Salii.
«Ciao, io so’ Franco, come ti
chiami?», «Irina», risposi. «Ah, Irina, Irina Cocimelova», rise rauco, e fece ridere anche me.
In seguito, in più di un’occasione,
ripensai al perché, poi, decisi di andare a vivere con quell’uomo, ma non
perché ne fossi pentita. La sera, anche se tardi, lasciare Mamma e
tornare a casa mi dava la sensazione di staccare, ma non era la ragione. Franco, lui non m’illuse, né
fece promesse. Mi chiamava Irina
Cocimelova e aveva smesso di lavorare per non mancare più neanche una
sbronza. Non lo scelsi per farci l’amore. Fare l’amore mi stancava, faticavo a
cercare un affiatamento che non capivo. E con lui era perfino doloroso, come farsi
un bagno nell’acido e asciugarsi con la carta vetrata. Ciò che invece ritrovavo
in fondo a ogni ragionamento era il giardino. Assurdo. Quel minuscolo pezzo di
terra, insignificante a tutti, che mi fioriva dentro e fuori, rigoglioso.
Quello era il solo perché, ed era la
prima volta vivevo in qualcosa che
non fosse vento.
Ma quando stasera Franco è tornato,
ubriaco come al solito, ero disperata. «Cai fatto?», grugnisce lui in una
nuvola d’alcol. «Mama è morta.», rispondo a stento. Di colpo lo vedo
sprofondare in un buio irragionevole: «Puttana schifosa …mo stai senza lavoro».
Scatto in piedi, ma è solo un attimo perché una tormenta furiosa mi stordisce.
Una ciocca bionda impastata a pece scura s’attacca al bordo del lavello e “…d’improvviso,
la testa si riempie di un frastuono di vento. Dura poco, il tempo di un
ricordo, questo, poi, neanche il vento, poi nulla più.”
Augusto Monachesihttp://www.associazionemarel.net/
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